di Giorgio Bonifazi Razzanti

Capita che la medicina ufficiale non sia in grado di trovare subito la cura efficace di un nuovo male. Capita anche che il malato in questo caso provi a cercare altrove, magari ricorrendo al guaritore del momento. È comprensibile. Meno comprensibile sarebbe il medico che cerchi di recuperare ruolo e credibilità sul terreno del guaritore. Paradossalmente da qualche tempo, è quello che accade in politica.

Sappiamo che una serie di circostanze e di trasformazioni globali, considerate in precedenti dibattiti e documenti di questo circolo, ha trasformato condizioni e modelli di vita rendendola spesso più difficile. Ne abbiamo parlato. Si tratta dei tanti effetti di post-globalizzazione, della finanziarizzazione dei mercati, della digitalizzazione delle attività umane, dei social media, dei big data, dell’avvento dell’intelligenza artificiale. Una serie di trasformazioni con tante caratteristiche in comune: implicano conseguenze dirette e rilevanti per tutti, sono connesse una con l’altra, sono in continua e rapida evoluzione, sono difficilmente governabili. Tutte questioni con le quali, piaccia o meno, facciamo i conti quotidianamente. A volte con effetti positivi, altri negativi. Chi è più attrezzato culturalmente ne trae maggiori vantaggi, il contrario chi lo è meno, come gran parte delle persone comuni.

La politica, da quasi trent’anni, viaggia in perenne ritardo su questo terreno, ha difficoltà a interpretare i cambiamenti e li affronta con l’attrezzatura del secolo scorso, mentre l’elettorato si allontana sempre più. Ed ecco che ci troviamo nelle stesse condizioni del paziente deluso dalla medicina ufficiale. In assenza di risposte adeguate anche qui l’elettore cerca altrove, facile preda degli abili pifferai che offrono scorciatoie, non importa quanto concrete, ma comunque bravi nel dare sfogo all’insoddisfazione collettiva. Ne abbiamo avuti, da Berlusconi a Grillo, ora Meloni e il suo partito, una versione rivista e corretta della stessa pochezza e inconsistenza. Si chiama populismo e dilaga nel mondo delle democrazie occidentali arrugginite, da noi con particolare successo.

La cosa più inutile che in queste condizioni si possa fare è inseguire il pifferaio di turno cercando di portarlo dalla propria parte. Purtroppo, è quello che da anni fa invece il PD all’inseguimento dei vari Berlusconi, Grillo e Conte, giocando su un terreno per lui estraneo (e per fortuna), con tentativi di intese improbabili destinate all’insuccesso elettorale. Gli approcci con i 5Stelle, con Calenda o magari Renzi (nessun peggior nemico degli ex compagni di partito), al momento, come vediamo, ricevono solo rifiuti e sberleffi, non potrebbe essere altrimenti. Per loro il PD è l’avversario numero uno da battere, come non rendersene conto?

Campi larghi o nuovo Ulivo sono progetti più che ragionevoli (uniti si vince divisi si perde, diceva a ragione uno degli ultimi segretari), ma che per funzionare necessitano di un centro di gravitazione. In altre parole, di un partito autorevole, con forte identità e riconoscimento popolare, in grado di portare naturalmente altri partiti dell’area all’aggregazione elettorale. È quello che fece Forza Italia con gli alleati di allora e che ha fatto Fratelli d’Italia con quelli di oggi. Il Partito Democratico al momento non è in questa condizione. Deve ancora ritrovare un’identità riconoscibile, deve ricompattarsi attorno alla propria segretaria, deve proporsi al Paese con un progetto di governo alternativo, sostenibile e comprensibile. In altre parole, diventare il leader dell’opposizione. Quando farà e sarà tutto questo, le alleanze saranno non solo possibili ma inevitabili. È un gran lavoro e bisogna avere il coraggio di farlo, senza inseguire l’ultimo sondaggio ma guardando al futuro del Paese, che capirà e solo allora premierà con il voto.