Circolo PD Parioli

Via Alessandro Scarlatti, 9a – Municipio II – Roma

STORIA

Via Scarlatti, 9
Massimo D’Antona

Via Scarlatti 9

“Veniamo da lontano e andiamo lontano” è una famosa frase di Togliatti riferita al movimento comunista e al PCI. Può valere anche per la nostra sede di via Scarlatti. Non so esattamente quando fu aperta, forse anche subito dopo la Liberazione di Roma il 4 giugno del 1944 o forse qualche anno dopo. Fatto sta che dagli anni 50 in via Scarlatti 9/a c’è la sezione Parioli del PCI. E, a pochi metri di distanza, nei locali dove ora c’è il ristorante Fiori di Zucca in via Spontini, c’era la sezione Parioli del PSI. E’ interessante notare che ambedue le sedi sono in realtà in zona Pinciano – Salario piuttosto che Parioli. E però ambedue le sedi si sono sempre orgogliosamente chiamate Parioli. Anche perché fin dal dopoguerra la sezione Salario del PCI fu aperta a via Sebino, dove ora c’è l’Istituto Gramsci, e la sezione Salario del PSI a via Lariana.

A Piazza Verdi come è noto c’era il Poligrafico dello Stato e poi, tanti anni dopo, nel palazzo a vetri di fronte arrivò l’ENEL. Quando io ero ragazzino, tra le fine degli anni 80 e i primi anni 90 le sezioni comuniste del Poligrafico e dell’ENEL si riunivano a via Scarlatti. A me è capitato di ascoltare alcune loro discussioni, in cui i temi politici nazionali e i problemi di quei posti di lavoro si intrecciavano. I militanti di quelle sezioni erano sempre presenti quando c’era da fare i rappresentanti di lista a via Micheli, a via Boccioni o a via Tevere.

Ma prima, negli anni 50 e 60, i militanti comunisti del Poligrafico si iscrivevano direttamente alla sezione Parioli. Che si è trovata così nella felice situazione di far discutere insieme gli intellettuali pariolini e gli operai che vivevano nelle periferie e lavoravano a Piazza Verdi. A via Scarlatti sono stati iscritti in quei decenni Umberto Terracini, Sibilla Aleramo, Mario Socrate, Paolo Alatri, Walchiria Terradura, Carlo Melograni. Terracini, tra i fondatori del PCI, fu Presidente dell’Assemblea Costituente e, in questa veste, firmatario della Costituzione insieme a Enrico De Nicola e Alcide De Gasperi. In anni più recenti, e con nuovi partiti, sono stati iscritti a via Scarlatti Walter Veltroni, Guglielmo Epifani, Paolo Leon, Ignazio Marino, Goffredo Bettini, Beppe Casadio. Da non iscritti hanno frequentato la nostra sede Angelo Guglielmi e Massimo D’Antona.

Pagherei oro per poter assistere alle discussioni politiche a via Scarlatti negli anni 50 e 60. Al confronto tra intellettuali, storici, dirigenti politici e gli operai del Poligrafico. Uno di quegli operai, Enrico Salvatore, divenne anche segretario della sezione, alla fine degli anni 80.

Negli anni 70 e 80 alcune ragazze e ragazzi del gruppo scout di San Roberto Bellarmino frequentarono la sezione del PCI in un fecondo scambio di esperienze. Nanni Vella, ex capo scout, e Francesca Leon, figlia di Paolo, furono candidati ed eletti dalla sezione come indipendenti in consiglio circoscrizionale. Del resto anche io e Carlo Manfredi da ragazzi eravamo scout in quel gruppo.

Gli anni 70 sono stati quelli più duri. Anni di scontri fisici con i fascisti militanti del MSI. Non si poteva mai rimanere in sezione da soli e sotto la finestra della segreteria vi erano le mazze per difendersi. Insieme con i socialisti, i democristiani e tutti gli altri fu creato un Comitato Antifascista del quartiere molto attivo, anche nelle scuole. In quegli anni, dopo essere andata in pensione, venne a iscriversi Elsa Capoleoni. Varrà sicuramente la pena parlare di lei in una prossima occasione.

Nel 1989, quando dopo la caduta del muro di Berlino Achille Occhetto propose la trasformazione del PCI in PDS, la gran parte della sezione aderì con molta convinzione. Il gruppo dirigente era schierato per l’apertura e l’innovazione nelle modalità dell’azione politica e creò un Comitato per la Costituente del nuovo Partito ai Parioli che ebbe una larga partecipazione. Di quegli anni mi piace ricordare un grande dirigente, un vero riformista, come Giorgio Volpato.

Ci sono persone che conoscono meglio di me quella lunga storia, ormai lontana. Due fra tutti: Consalvo D’Antonio e Walter Anello. Varrebbe la pena di raccogliere un po’ di ricordi e non smarrire la memoria.

Oggi a via Scarlatti c’è il Partito Democratico. Ci sono tra noi persone che vengono dalla DC, dal PCI, dal PSI e molti che non sono mai stati iscritti ad altri partiti. I più giovani certamente. Io sono molto contento di questo e sono certo, perché li ho in gran parte conosciuti, che anche chi ha frequentato quelle mura in decenni ormai lontani ne sarebbe contento. Il futuro ha radici antiche.

Di Guido Laj

L’eredita’ di Massimo D’Antona nel diritto del lavoro

In occasione della ricorrenza della tragica scomparsa di Massimo D’Antona (20 maggio 1999), vorrei proporre una breve riflessione sull’attualità del suo metodo scientifico, per quello che egli avrebbe potuto ancora dare all’evoluzione del diritto e della legislazione del lavoro.

D’Antona (che è stato mio maestro, all’Università di Catania, e indimenticabile amico) apparteneva a quella generazione di giuristi che aveva posto al centro del loro impegno i valori legati all’interesse collettivo, come scelta culturale alternativa rispetto ad un modello di società basata solo sull’individualismo e sul mercato. L’interesse collettivo, saldamente legato alla centralità della persona del lavoratore, nella convinzione che questa debba essere al centro di ogni progetto culturale e di riforma.

Una delle sue più ricorrenti citazioni – “ci sono dei diritti che attengono al lavoratore, non come parte di un contratto, ma in quanto persona” – è emblematica della sua impostazione di studioso e di uomo delle istituzioni: pur nei moderni sistemi di produzione di massa, il compito del giurista deve essere quello di adoperarsi perché l’organizzazione del lavoro sia sempre a misura della persona, delle sue capacità, delle sue inclinazioni. Lavorare non è solo produrre ricchezza, ma contribuire anche alla creazione del mondo.

Proprio al valore della persona del lavoratore D’Antona dedicò un’ampia riflessione al tema della reintegrazione nel posto di lavoro, a seguito di licenziamento illegittimo. Il nucleo essenziale di questa riflessione e la sua attualità, si ritrovano nell’assunto che la reintegrazione non deve essere un tabù intoccabile, ma, tuttavia, a questa bisogna riconoscere un indiscutibile valore etico di garanzia dei diritti fondamentali del cittadino lavoratore, verso possibili arbitri del suo datore di lavoro. Essa, pertanto, può essere rivisitata, in relazione alle mutate situazioni economico-sociali, ma una sua totale cancellazione sarebbe “una sconfitta per la nostra civiltà giuridica”. Tale diritto, infatti, non riguarda le dinamiche del mercato del lavoro, ma la dignità della persona nei luoghi di lavoro.

Un’impostazione che D’Antona proiettava anche nei suoi studi sullo sviluppo del diritto del lavoro nell’Unione europea, per ricostruire le tutele dei lavoratori come diritti universali, indipendentemente dai vari ordinamenti giuridici. Il sottotitolo di una raccolta di suoi scritti pubblicata dopo la sua scomparsa, In difesa della Costituzione, indica, come tutto il contributo teorico di D’Antona alla evoluzione/ridefinizione del diritto del lavoro, abbia sempre avuto, come punto di partenza e di approdo, la Costituzione. La sua norma di apertura, che proprio sul lavoro pone le basi per il pieno sviluppo della persona umana e per il progresso sociale ed economico del Paese, era indicata da D’Antona come naturale contrappeso ad un uso incontrollato della flessibilità, qualora questa si riveli non una risorsa per la creazione di opportunità di impiego, ma solamente una serie infinita di tipologie contrattuali, destinate a generare precarietà.

Oltre che con la sua produzione scientifica, sorprendente per intensità e originalità, D’Antona ha dato un grande contributo, in qualità di tecnico al servizio delle istituzioni, alle politiche legislative del lavoro, negli anni ’90, prima come Sottosegretario nel Ministero dei Trasporti, durante il Governo Dini e, successivamente, come consigliere del Ministro del lavoro, nel Governo D’Alema.

Siamo in una nuova stagione del diritto del lavoro, che deve confrontarsi con la crisi economica e la contrazione dell’occupazione.

Anche l’azione sindacale, dopo le spinte fortemente rivendicative che avevano contrassegnato le lotte operaie alla fine degli anni ’60 e larga parte dei ’70, non è più rivolta solamente agli interessi particolari della categoria, ma anche a quelli più generali della collettività. È il periodo della concertazione, che vede le parti sociali, con la mediazione del Governo, trovare grandi intese su costo del lavoro, regole del conflitto, misure anti-inflazione, etc..

Da tale esperienza deriveranno importanti leggi concertate, emanate con un ampio consenso delle parti sociali (tra le quali quella sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, n.146/1990; o sulla cassa integrazione guadagni e il sistema di mobilità, n.223/1991), alle quali D’Antona diede un contributo fondamentale, dopo che si era adoperato, come studioso, alla ricostruzione teorica del c.d. modello “neoistituzionale”, nel quale lo Stato delega alle parti sociali la regolazione di talune materie. Un modello che riconosce alla contrattazione collettiva un potere normativo e che presuppone, pertanto, l’individuazione di un sindacato ben strutturato, portatore di interessi generali: in pratica un sindacato autenticamente rappresentativo.

All’esigenza di individuare criteri sulla rappresentatività sindacale D’Antona dedicò gran parte delle sue energie, convinto che (come in un suggestivo saggio del 1999, sull’art.39 della Costituzione, purtroppo il suo ultimo scritto), la verifica della rappresentatività sindacale fosse funzionale al superamento delle limitazioni alla contrattazione collettiva, derivanti dalla mancata, completa, attuazione della norma costituzionale. Esigenza tradotta, poi, in quella riforma del pubblico impiego, realizzata dal 1997, con la privatizzazione del rapporto di lavoro, che lo vide protagonista, insieme all’allora Ministro Franco Bassanini.

Anche con riferimento allo sciopero nei servizi pubblici essenziali, in particolare nel settore dei trasporti, D’Antona si prodigò nel preciso preciso intento di responsabilizzare le organizzazioni sindacali più rappresentative a porre in essere regole autonome per contemperarne lo sciopero con i diritti dei cittadini utenti dei servizi. Fondamentale il suo contributo alla riforma della L.146/1990, intervenuta con la L.83/2000, profuso insieme ad un altro grande giurista, protagonista della politica del lavoro del nostro Paese, Gino Giugni, già Ministro del lavoro e, all’epoca, Presidente della Commissione di garanzia sullo sciopero, del quale D’Antona, per formazione e impostazione metodologica, veniva generalmente indicato come suo erede.

Credo, infine, che il destino della concertazione nel nostro Paese sia rimasto, in qualche modo, legato a quello di D’Antona. Indubbiamente, quando venne colpito, egli rappresentava l’uomo delle istituzioni su cui il Governo puntava per un possibile rilancio dell’esperienza di concertazione con le parti sociali. Qui si può ritrovare la lucida follia dei suoi assassini: chi conosceva bene il momento di criticità del dialogo sociale, comprese subito quanto fosse strategica, nel disegno criminoso dei terroristi, l’individuazione di quel bersaglio. Con l’eliminazione di D’Antona e della sua intelligente capacità di mediazione, di costruire idealmente ponti tra posizioni contrapposte, veniva, infatti, affossata (senza che ci sia più stata una ripresa) qualsiasi prospettiva di rilancio della concertazione sociale.

E in effetti è con i ponti, e non con i muri, che si costruisce la storia dell’umanità.

di Giovanni Pino
Articolo uscito l’11 maggio 2016 su ildiariodellavoro.it