Quale identità per un nuovo Partito Democratico
TAVOLO DI LAVORO “IDENTITÀ PD” 2023
Coordinatore: Giorgio Bonifazi Razzanti
Membri: Aldo Amoretti, Lucio Contardi, Massimo De Cristofaro, Mario De Luca Picione, Claudio Esposito Scalzo, Cecilia Ivaldo, Guido Laj, Carlo Luigi Manfredi, Stefania Mazzoni, Olga Micolitti, Maurizio Misasi, Rita Palanza, Andrea Piani, Rosalba Savarese, Alberto Zevi, Emma Cavallucci.
Gennaio 2023
Le elezioni del 25 settembre 2022 hanno reso evidente la crisi profonda del Partito Democratico che riguarda tanto l’organizzazione quanto le ragioni stesse della sua esistenza. Come in tanti altri circoli la situazione ha suscitato discussioni e iniziative. Il circolo Parioli ha riconosciuto nel tema dell’identità il nodo centrale da affrontare per capire come ridare vita al partito, dalle idee all’organizzazione necessaria per attuarle. Nella convinzione, così come richiesto dallo statuto PD, sia nostro diritto e nostro dovere contribuire all’indirizzo politico del partito, su questo tema abbiamo istituito un tavolo di lavoro che ha visto l’impegno di quattordici iscritti al nostro circolo e la partecipazione di due iscritti al circolo Flaminio – Villaggio Olimpico, che ringraziamo anche per aver messo a disposizione il loro prezioso “Documento per il congresso del Partito Democratico”. Il presente documento è la sintesi di quanto è stato discusso e poi condiviso con tutto il circolo Parioli.
Saltiamo alle conclusioni
Il congresso si avvicina, il tempo stringe e immaginiamo che non tutti siano disponibili a leggere tutto d’un fiato una decina di pagine. Ragion per cui, contrariamente al solito, in questo documento abbiamo deciso di partire dal punto di arrivo per dire subito cosa fare, secondo noi, per ritrovare il Partito Democratico così come lo vorrebbe l’elettorato. Perché e come ci siamo arrivati lo spieghiamo subito dopo.
Il Partito Democratico si trova a un bivio: dopo aver inciampato nella verità, può rialzarsi e continuare nella stessa direzione come se niente fosse accaduto (diceva Churchill delle persone stupide), oppure cambiare strada, come auspicato da base ed elettorato, a mente aperta e liberi da qualsiasi condizionamento. Come circolo abbiamo convenuto che, nella seconda ipotesi, sia indispensabile:
- Ripartire dalle persone, per ridurre le difficoltà quotidiane e creare migliori prospettive di futuro. Si possono individuare diversi approcci validi al cambiamento auspicato, ma la ripartenza mettendo le persone al centro dell’azione siamo convinti sia quella più giusta e rispondente alle ragioni del Partito Democratico. Più giusta perché ogni intervento politico, a maggior ragione in questo momento, dovrebbe essere pensato nella ricaduta sulle persone: quali rischi, quali i vantaggi concreti e misurabili. Più rispondente perché l’attenzione ai soggetti fragili e la creazione di pari opportunità dovrebbe essere nelle linee guida di un partito con le radici nella sinistra, una peculiarità che fa la differenza con tutti gli altri partiti. Inoltre, questa focalizzazione renderebbe più facile il riconoscimento dell’azione politica. Si tratta dunque, con ogni evidenza, di un’idea di welfare inteso come diritto al benessere di tutte e di tutti che si realizza nella capacità dello Stato di appianare le disuguaglianze sociali che penalizzano la qualità della vita al presente e la costruzione del proprio futuro.
Questa volontà di assicurare il benessere sociale poggia su quattro imprescindibili colonne:
- Una è l’accesso all’istruzione, nella qualità e nel percorso formativo necessari per poter decidere in piena libertà del proprio futuro come persona produttiva.
- Un’altra è la possibilità di realizzarsi in un lavoro dignitoso, giustamente remunerato e di soddisfazione, che consenta di guardare al proprio futuro con serenità.
- Un’altra ancora è l’offerta di servizi pienamente rispondenti alle esigenze e alle tasse pagate dai contribuenti, in primo luogo il Servizio Sanitario Nazionale da riorganizzare nei tempi e nelle prestazioni.
- Infine, ma dovrebbe essere per primo, il pieno riconoscimento dei diritti della persona, a tutti i livelli e per tutte le diversità che esprimono l’insieme eterogeneo della società.
Istruzione, lavoro, servizi e diritti, ognuna di queste fondamentali macroaree del welfare è collegata all’altra e dunque solo nella qualità della progettazione di insieme si realizzeranno le pari opportunità e le aspettative desiderate.
Ogni provvedimento di queste macroaree non può non prevedere il doppio inquadramento di visione strategica a medio/lungo periodo e di sollievo immediato delle sofferenze insostenibili: agire, al tempo stesso, con terapie di risanamento e di pronto soccorso là dove è necessario.
La solidità di questo welfare sarà possibile solo se contemporaneamente si affronteranno i nodi delle tante riforme incompiute (istruzione, lavoro, fisco, giustizia, burocrazia, …) indispensabili al buon funzionamento del sistema Paese e i temi di carattere globale (clima, risorse energetiche, migrazioni, …) che incidono sulla vita di tutte le persone. Il PNRR è per questo un’opportunità irripetibile ma occorre anche una intesa trasversale tra tutte le forze politiche, un appello alla responsabilità, oggi impensabile ma nelle capacità di un PD ritrovato.
Questo approccio, a nostro avviso, è una “cosa di sinistra” moderna e responsabile che fa quello che serve con determinazione, senza paura del sondaggio del giorno dopo. Se così l’elettorato siamo certi capirà e premierà.
- Cambiare mentalità e organizzazione. Non riusciamo ad immaginare quanto sopra se non partorito da un nuovo Partito Democratico che si è liberato dalle incrostazioni di vecchie correnti e capibastone, che ha ridisegnato l’organizzazione in modo da stabilire un dialogo vero con l’elettorato, che è aperto all’innovazione e al ricambio della classe dirigente, che dà spazio alle nuove generazioni e alle loro idee. Non si tratta di “rottamare” la vecchia dirigenza, crediamo al contrario che una buona classe dirigente debba essere un insieme equilibrato di chi porta innovazione e chi offre esperienza. Per questo i circoli PD rappresentano un vivaio prezioso di persone motivate tra le quali individuare e dare spazio a quelle che meritano, in particolare i più giovani, non ci sarebbe bisogno di dirlo. Le modalità di questa riorganizzazione non sta a noi deciderle, ci fidiamo, a patto che ogni cosa sia fatta in modo corretto e trasparente. Dovrebbe però essere chiaro a tutti che questo partito, se vuole vivere non sopravvivere, va rifondato sul serio, senza scorciatoie, il passato delle divisioni e delle spaccature va chiuso una volta per tutte, senza ulteriori manovre gattopardesche. In questa visione il nuovo segretario, donna o uomo che sia, dovrà essere la migliore espressione della ritrovata identità del PD, non al contrario un partito che cerca di malavoglia la propria identità nella tombola del segretario.
Pensiamo poi sia indispensabile rivoluzionare il modello di comunicazione. Un partito che lavora nell’interesse delle persone non può limitarsi all’informazione attraverso le news dei media e le campagne elettorali. Serve un’organizzazione in grado di condividere le scelte con le persone interessate direttamente e in tempo reale, strumenti e tecniche ci sono, per ora manca il cervello disponibile, ma è quello su cui contiamo altrimenti anche il resto non starà in piedi.
Questo è quanto. Qui di seguito spieghiamo perché è questa la strada migliore da percorre.
Quindici anni da crisalide
La storia del Partito Democratico la conosciamo. Nel dopo elezioni di settembre si sono moltiplicate le analisi e le critiche alle scelte elettorali e ai quindici anni di vita spesi male, ben poco di quanto promesso nel 2007 ha mai visto la luce. In compenso abbiamo dovuto assistere a faide interne, regolamenti di conti, scissioni, scomuniche. Nove segretari in quindici anni, assai diversi tra loro, tutti ugualmente erosi dalle correnti interne per le quali il segretario eletto rimane sempre un pari tra pari, un capo non capo, un eterno camerlengo in attesa del vero papa, quello che però nessuno degli altri cardinali vorrà mai. Se per un miracolo tornasse in vita e segretario Enrico Berlinguer, anche lui in breve sarebbe fatto fuori da questa classe dirigente come tutti gli altri.
Senza ripercorrere le varie vicende, tra speranze e frustrazioni lo spettacolo offerto è stato sempre più desolante in un progressivo allontanamento dalla vita e dalla comprensione dell’elettorato. Non solo, malgrado i numeri abbiano certificato il PD come secondo partito in termini di voti, nei mesi successivi tutti si sono trovati d’accordo nell’identificare nei democratici la causa principale dei mali della politica e delle disgrazie del Paese: dai media ai partiti di governo, comprese le altre forze di opposizione per le quali l’avversario non è tanto l’attuale maggioranza quanto questo PD in crisi, da attaccare e da smembrare prima che possa arrivare ancora in vita al congresso. A differenza degli altri partiti che vengono votati in base al gradimento o, più genericamente, alle speranze del nuovo e alle promesse elettorali, al PD viene riconosciuto senso dello Stato, maggiore competenza e capacità amministrativa, anche internazionale, ma di fondo risulta antipatico e noioso, non è sexy come riescono ad esserlo anche i peggiori avversari. Per gran parte dell’elettorato il PD si vota per necessità, ma di malavoglia, coprendo occhi e orecchie oltre che turando il naso.
La crisi e il congresso che si avvicina è dunque l’occasione per ragionare sulle cose che in questi anni non hanno funzionato. A nostro avviso si tratta soprattutto di tre macroscopiche incapacità alle quali porre urgente rimedio perché siano di ispirazione alle idee e all’azione del nuovo PD.
Incapacità di stare in contatto con le persone e i loro problemi per capirli e trovare le soluzioni migliori che si aspettano.
Incapacità di una organizzazione interna trasparente, efficiente e assertiva, che nel confronto non perda mai di vista il risultato finale nell’interesse dell’elettorato e del Paese.
Incapacità di comunicazione esterna in modo chiaro e semplice per farsi capire da chiunque in qualsiasi situazione.
Abbiamo ragionato su tutt’e tre.
Nave senza nocchiero in gran tempesta
Così Dante definisce l’Italia. Non ci potrebbe essere metafora più efficace per descrivere società e politica in questi primi decenni del 21° secolo.
Viviamo un’epoca di problemi complessi che non hanno risposte semplici. È vero, è stato detto e ripetuto. Ma il fatto è che, mentre non passa giorno senza che le conseguenze rendano più difficile la vita, per la politica poco diligente queste complessità sono diventate paradossalmente un alibi per non occuparsene, per non risalire alle origini del disagio sociale. Altre volte si è tentato scegliendo la via della semplificazione, ovvero la banalizzazione dei temi, con risultati ancora più dannosi. Si mettono in campo molte risorse e provvedimenti, anche questo è vero. Ma si tratta quasi sempre di provvedimenti tampone, toppe elettorali alle emergenze più vistose, non di interventi strutturali capaci di intervenire sulle cause per aggiustare la rotta. In sostanza la politica ragiona con i parametri del secolo scorso, non ha capito e non ama il nuovo millennio se non negli aspetti più superficiali, non lo ha studiato e non intende farlo. È evidente che in questo modo non si va lontano e che la situazione non potrà che peggiorare.
Le implicazioni e gli effetti della globalizzazione li conosciamo tutti, o almeno così credevamo. Oltre alle note conseguenze della delocalizzazione delle imprese, che tanto hanno stravolto il mondo del lavoro nella seconda metà del secolo scorso, abbiamo recentemente scoperto che, prima il Covid poi la guerra in Ucraina, interrompendo le filiere produttive intercontinentali, improvvisamente ci possono lasciare senza auto e telefonini. Così come la dipendenza dall’estero di materie prime e risorse energetiche da un giorno all’altro ha fermato tante nostre imprese e prospettato un inverno al freddo. Si è corso ai ripari facendo in fretta e furia quello che una politica più accorta avrebbe potuto già da tempo se avesse fatto quello che parlamento e governi sono chiamati a fare. I casi di imprevidenza e ritardi sono tanti, più o meno evidenti, ma di solito ne veniamo a conoscenza quando ormai sono diventati un problema. Un piccolo esempio recente: a causa di Covid e guerra, il mondo produttivo italiano si sta misurando ora con il reshoring (il contrario dell’offshoring, il ritorno in patria di tante manifatture a suo tempo delocalizzate). Un fenomeno nuovo dettato dalle mutate condizioni internazionali che implica “una maggiore preparazione sulle tematiche doganali e del commercio internazionale”1 e che necessita urgentemente di nuove competenze, investimenti e procedure aggiornate anche da parte dello Stato. Sembra una cosa di poco conto ma ne va del lavoro di tante imprese e del reddito di migliaia di famiglie italiane. Qualcuno ne ha sentito parlare da governo e opposizioni? La globalizzazione non è argomento di discussione per decidere da che parte stare. Piaccia o meno è una realtà che riguarda la vita di tutti, molto più da vicino di quanto la politica sia stata disposta a riconoscere.
Anche della digitalizzazione se ne parla da quasi trent’anni. La rivoluzione permanente dell’ICT, le nuove applicazioni dell’intelligenza artificiale e l’utilizzazione dei big data, cambiano le nostre vite giorno per giorno ad ogni livello, senza che ce ne rendiamo conto. Nascono nuovi lavori, nuove professioni e nuovi modelli di impresa con opportunità mai conosciute prima. Al tempo stesso scompaiono molti lavori tradizionali che le nuove tecnologie rendono obsoleti oppure fuori mercato. Non è il caso qui di affrontare il tema nelle sue infinite implicazioni (basti ricordare come il Covid abbia impresso una svolta ai modelli di lavoro in remoto, con conseguenze imprevedibili solo poco tempo prima sulle organizzazioni, sulle connessioni da casa, sui trasporti, sul tempo libero, sui luoghi di lavoro e su quelli di residenza); ricerche, analisi e numeri sono facilmente reperibili in rete e sufficienti per avere un quadro della situazione. Quello che ci interessa mettere in evidenza è che queste nuove realtà, se da un lato è insensato pensare di averne il controllo, dall’altro rendono indispensabile aggiornamento di competenze e strategie di intervento in continua evoluzione, anche da parte di governo e amministrazioni pubbliche. Un obiettivo dovrebbe essere la riduzione del digital divide che esclude larga parte della popolazione meno attiva e, al tempo stesso, la creazione di opportunità formative e competenze specifiche per quella più giovane. Dovrebbe anche essere la capacità di previsione e intervento tempestivo per le trasformazioni del prossimo futuro che riguardano interi settori produttivi (la categoria dei tassisti, tanto per fare un altro esempio, con l’avvento del 5G tra non molto dovrà vedersela con la concorrenza delle auto a guida autonoma, senza grandi margini di trattativa). Dovrebbe essere infine una rete di siti istituzionali di servizio facili e dialoganti tra loro (non interfacce arcaiche con navigazioni kafkiane). Si tratta, con tutta evidenza, di una visione che mal si concilia con l’assenza di politiche adeguate nella formazione, nel lavoro e nell’accesso ai servizi per i quali si pagano le tasse. Miopie e strabismi in un mondo in rapido cambiamento che mettono a fuoco solo l’ultimo sondaggio per l’incasso elettorale.
Ancora in quest’area tecnologica della comunicazione facciamo i conti da poco meno di vent’anni con i social media (Facebook nasce nel 2004). Ognuna/o di noi aderisce a diversi social network e dedica ogni giorno non poco tempo (in media quasi due ore e mezza) a leggere e mandare messaggi. Ma, come anche qui abbiamo recentemente scoperto, i social media e i motori di ricerca sono anche strumenti di facile manipolazione a livello mondiale. Dalla Brexit, all’assalto del parlamento statunitense, ai no-vax e i no-tutto, la rete è diventata un luogo oscuro di fake news, disconoscimento delle competenze e di gestione sotterranea del potere che sfugge facilmente a qualsiasi controllo.
Gli ultimi quindici anni sono stati segnati anche dalle due grandi crisi recessive che hanno colpito duramente la classe media, famiglie e imprese. Nel 2008 la crisi innescata dalla bolla immobiliare e dalla truffa dei titoli subprime, poi nel 2011 la crisi del debito sovrano hanno svuotato il conto dei piccoli risparmiatori e messo in ginocchio un numero impressionante di PMI, il tessuto più vitale dell’economia italiana. I numeri del bollettino di guerra a cavallo di quegli anni fecero registrare il fallimento di 82 mila aziende, la perdita di oltre un milione di posti di lavoro, 1.400 suicidi tra disoccupati e imprenditori sul lastrico. Una catastrofe economica che portò al governo Monti lacrime e sangue per le famiglie, non solo quelle più fragili. Il punto rilevante è che da allora niente è più tornato come prima. L’economia mondiale, anziché introdurre i correttivi promessi alla speculazione, è transitata definitivamente nell’era della finanziarizzazione internazionale dei mercati che consente agli operatori grande libertà d’azione con gli eventuali eccessi scaricabili sugli Stati, ovvero sui contribuenti. I riflessi sulle disparità sociali sono noti “A fine 2020, il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre 2/3 della ricchezza nazionale mentre il 60% più povero appena il 14,3%. A fine 2020, il top 10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possedeva oltre 6 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.” 2 Poi come sappiamo è stata la pandemia e ora la guerra a trasformare questi numeri in una drammatica fotografia del Paese, con tutto quello che abbiamo dovuto imparare della “gig economy”, il precariato sottopagato e senza paracadute elevato a sistema, mentre il nostro paese viaggia verso la recessione con un’inflazione all’11.8% su base annua, un picco che non si vedeva dal 1984.
Tutto questo ha inciso profondamente sul presente e sul futuro della stragrande maggioranza delle famiglie italiane, dalla classe media in giù. Ha materializzato per tutte maggiori o minori difficoltà ad arrivare alla fine del mese, ha reso irrealistiche le possibilità di recupero nel futuro prossimo, crea ansia in uno scenario sempre più minaccioso.
In questo stesso periodo l’Italia ha visto il succedersi di ben nove governi, nessuno dei quali si è dimostrato capace, ma sarebbe meglio dire interessato, ad intervenire in modo strutturale per invertire la rotta – ad eccezione, va riconosciuto, del governo Draghi, una breve parentesi tuttavia che è servita ai partiti per affilare le armi e riprendere il controllo. Questi anni difficili i nostri parlamentari li hanno invece vissuti in un mondo parallelo, al riparo dai problemi dei comuni mortali, a partire dai grillini che una volta arrivati in parlamento hanno aperto la scatoletta del tonno, se lo sono mangiato e hanno imbrattato tutto. Giova qui ricordare il tanto sbandierato taglio dei parlamentari che doveva ridurre i costi della politica ma, a dispetto dei 230 seggi in meno, la dotazione della Camera è rimasta la stessa: 943 milioni di euro. Un successo, più soldi per tutte/i 3. Anche gli stipendi di deputati e senatori dovevano essere ridimensionati ma le urgenze sono state evidentemente altre. Al netto, ogni mese i deputati oggi prendono 13.971 €, i senatori 14.635 €. “Uno studio inglese sugli stipendi dei parlamentari in Europa ha calcolato che il costo di un parlamentare italiano è di circa 120.500 sterline all’anno. Praticamente il doppio dei colleghi inglesi che percepiscono 66.000 sterline, molto di più di quelli dei politici tedeschi e francesi e addirittura sei volte tanto di quelli spagnoli.”4 Sono numeri che conosciamo tutti, si dirà che sono i soliti conti in tasca che non considerano gli oneri e le responsabilità della politica parlamentare. Può essere, ma se li mettiamo a confronto con il magro bilancio delle famiglie in questi anni, se paragoniamo le incertezze dei tanti con le sicurezze dei pochi, è difficile continuare a dare credito alla politica per il vuoto che si riceve in cambio.
Abbiamo dovuto fare questa rapida sintesi di scenario nazionale perché altrimenti non si può capire la trasformazione del comune sentire dei cittadini. Una società impoverita e spaventata dal futuro che vede la politica sempre più lontana dalla propria condizione non può che reagire con rabbia e ripagare con lo stesso disinteresse le persone e le ideologie dalle quali si sente tradita. Il populismo nasce da qui, è un fenomeno in espansione tra le democrazie occidentali ma che ha trovato in Italia un terreno quantomai favorevole per dare il peggio di sé. Di fronte alla rabbia abbiamo visto come in questi anni la politica nostrana, lungi dal capire e intervenire, si è invece subito adattata nel cavalcare l’onda, in modo tanto irresponsabile per gli effetti sulla società quanto cinica nell’assicurare le proprie poltrone. Un gioco di ideologie concorrenti polarizzate: nazionalismo, regionalismo, ecologismo, radicalismo antiglobalista, euroscetticismo, sovranismo, … ognuna delle quali identifica un nemico verso cui indirizzare la rabbia, recuperando qua e là pezzi delle ideologie di destra o di sinistra in smantellamento, senza alcuna visione costruttiva di futuro. Il PD, che non s’è prestato a questo gioco di facile incasso, non è stato tuttavia capace di proporre una alternativa convincente perdendo progressivamente credibilità e interesse di gran parte dei suoi elettori. Giova a questo proposito ricordare che la ragione dell’incapacità propositiva sta, non solo nel non aver capito la portata e le conseguenze dei grandi cambiamenti del nuovo secolo, ma anche e ancora peggio nel non essersi resi conto della progressiva metamorfosi dell’elettorato di riferimento. La classe operaia debole e poco protetta che costituiva la base e l’anima della sinistra degli anni ’60 e ’70 è stata via via sostituita da un insieme di altre categorie, senza tuta blu ma altrettanto bisognose di attenzione. Piccoli commercianti, lavoratori autonomi, liberi professionisti, giovani imprenditori, costituiscono la base vitale del mondo del lavoro, con attività tanto preziose per l’economia quanto sprovviste di tutele adeguate ai modelli di lavoro in continua evoluzione. La sinistra invece di capire e provvedere ha guardato con diffidenza il nuovo elettorato, consegnandolo nelle mani di una destra, magari meno attrezzata ma più svelta nel cogliere le richieste di aiuto.
All’incapacità di connessione con l’elettorato non poteva non corrispondere un clima interno al partito altrettanto disfunzionale. La “fusione a freddo” tra i due partiti fondatori, “l’amalgama mal riuscito”, non è stata capace di produrre altro che un progressivo accartocciamento su se stessi. Mentre il paese affrontava le emergenze del nuovo secolo la classe dirigente del partito dava inizio alla guerra dei Roses (delle due rose per gli amanti della storia) sempre più incattivita e autodistruttiva. Le correnti interne – nate per il confronto ideologico ma di cui nessuno ha mai rendicontato il prodotto utile per il partito e per il paese – si sono rivelate bande armate per la contesa di posizioni di comando interno e poltrone di governo esterne. Alla disattenzione verso il paese reale qui si è aggiunta quella verso la base del partito, i circoli, gli iscritti. Chi è anziano ricorderà lo spirito che animava le sezioni del PCI prima e dei DS poi, dove la discussione era viva e l’incontro periodico con i vertici occasione di travaso e maturazione di idee tale che, al momento di scelte importanti come un congresso o una tornata elettorale, era già ben chiaro cosa dire e cosa fare, senza bisogno di improvvisare sondaggi e questionari dell’ultimo momento. In questo modo l’arroccamento autoreferenziale della dirigenza, impermeabile ad ogni tipo di vera condivisione, non poteva non portare a una progressiva distorsione del manifesto e della visione riformista del 2007. Nel giro di pochi anni l’idea di una socialdemocrazia moderna, fondativa del PD, è così evaporata in un conflitto di posizioni ideologiche contrastanti e provvedimenti incoerenti, la visione del futuro è diventata via via più confusa, lo scollamento dalla realtà incomprensibile e imbarazzante per chiunque da fuori.
Come se non bastasse la pochezza della sostanza, anche nella comunicazione esterna si è fatto ben poco per fare arrivare i propri argomenti al pubblico e ottenerne il consenso. Il programma elettorale ancora una volta si è materializzato in un documento senza passione, lungo e complesso, pieno di parole ma incapace di trasmettere le ragioni della scelta, la sostanza concreta della propria promessa, tanto che qui nel circolo in quei giorni di campagna si lavorò molto per cercare di tradurlo in una sintesi comprensibile per gli incontri locali. La campagna stessa, impostata prima sulla vittoria delle idee (quali?) poi sul contrasto al pericolo nero (!) si è rivelata un boomerang, lontana dai problemi reali e dal sentire del Paese. Del resto, la poca propensione ad investire nelle forme, nelle strategie e i linguaggi professionali della comunicazione è sempre stata un altro grave deficit di questo partito, non tanto in campagna elettorale quanto nell’intero ciclo delle attività politiche, quelle che nel tempo costruiscono il dialogo e l’immagine da capitalizzare e spendere poi quando serve. È un tema da sempre sottovalutato sul quale occorrerebbe una serie di riflessioni che non possono essere di questo documento. Basti ricordare che, come accade in qualsiasi organizzazione, se l’identità interna è carente altrettanto risulterà l’immagine esterna, per quanti sforzi si facciano quando se ne ha più bisogno.
In definitiva assenza di progetti e di idee coraggiose, lontananza dalle persone, scollamento dalla base, questo dice in poche parole la radiografia della ditta sull’orlo del fallimento.
Si tratta dunque di prenderne atto ed avere l’onestà e il coraggio di ripartire da qui per provare a ricostruire quello che si è distrutto in questi anni.
Quale bussola per andare dove
Abbiamo detto delle difficoltà della società italiana e delle incapacità dimostrate dal partito. Ma nel cercare di capire in quale direzione muoversi e cosa fare, dobbiamo inevitabilmente partire dal quadro generale che certifica l’affanno del Paese, dovuto alle patologie storiche del suo sistema, aggravate dalle più recenti difficoltà di cui sopra. Parliamo del calo demografico e dei posti di lavoro utili per la crescita dell’economia e del benessere. Per quanto riguarda le nascite l’Italia è il fanalino di coda europeo5, siamo già abbondantemente sotto i 60 milioni, continuando così alla metà del secolo scenderemo sotto i 506; siamo il paese europeo con la maggiore spesa pensionistica. Il nostro PIL, dopo una salutare fiammata di recupero, è tornato a viaggiare su decimali prossimi allo zero. I due fenomeni, demografia e PIL, sono evidentemente collegati, l’uno influisce sull’altro in una spirale a somma negativa. Sono dati che tuttavia non possono sorprendere se si considera appunto l’assenza di visione e strategie di sviluppo di questa classe politica. Un Paese dal quale si fugge se possibile e dove si invecchia ma con prospettive pensionistiche evanescenti.
Da dove e come ripartire dunque? I temi da affrontare, come s’è visto, sono tanti, tutti urgenti, concomitanti e di primaria importanza. Considerato l’insieme di cause ed effetti noi pensiamo che la cosa migliore e più logica sia ripartire dalle persone, quelle che non hanno, del tutto o in parte, capacità di reagire alle difficoltà. Per queste va creata una rete di sicurezza che consenta di guardare al presente e al futuro con fiducia, in modo concreto e visibile. Dunque interventi che, al tempo stesso, dovranno essere di carattere strategico per le trasformazioni strutturali di medio/lungo periodo e di tampone per alleviare, il prima possibile, quelle difficoltà quotidiane che non possono aspettare tempi migliori. Questi due piani di azione dovrebbero viaggiare insieme in un’unica visione progettuale, trasparente e comprensibile per tutti.
Stiamo parlando evidentemente di una nuova dimensione del welfare, ma in una accezione per molti aspetti diversa da quella originaria del 1942 che, nella ricostruzione postbellica intendeva battere i cinque giganti di allora: il bisogno, l’ignoranza, la malattia, lo squallore, l’ozio. Oggi, a fronte delle nuove emergenze sociali, è forse più opportuno parlare di diritto al benessere, inteso come condizione ottimale offerta dallo Stato a ognuna/o per poter realizzare i propri desideri, senza ovviamente che questi entrino in conflitto con quelli degli altri. Come si vede, un concetto non molto diverso in fondo da quel diritto inalienabile al perseguimento della felicità di cui parla la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti.
Quali sono le condizioni indispensabili per costruire questo diritto al benessere?
Come abbiamo anticipato in apertura, senza dare un ordine di priorità, si possono individuare sicuramente quattro macroaree dove lo Stato deve ritrovare quella piena funzione che in Italia non c’è mai stata: diritti della persona, istruzione, lavoro, servizi.Se queste quattro esigenze sono soddisfatte, si creano le condizioni per assicurare a ognuna/o l’opportunità di realizzare legittimi desideri e aspettative. Una parte politica che ha le radici nella sinistra progressista e aspira al governo del Paese non può che orientarsi in questa direzione.
Ci sono poi dei temi di fondo ineludibili per rendere possibile il diritto al benessere a cui aspiriamo. Anche qui, come anticipato, si tratta di mettere mano alle riforme incompiute di cui il Paese ha sempre più bisogno e senza le quali qualsiasi progetto di miglioramento sarà sempre azzoppato: burocrazia, giustizia, istruzione, sistema fiscale, mercato del lavoro, sistema elettorale, … finora sono stati per lo più strumenti di scontro politico di una parte contro l’altra, moneta di scambio elettorale per strizzare l’occhio a questa o quella categoria a danno di altre. Occorre qui una stagione di accordo trasversale basato sugli standard europei che possono fare facilmente da guida, non occorre inventare niente di rivoluzionario, gli esempi di benchmarking non mancano. Anche a costo di sembrare ingenui, per fare quello che serve siamo convinti basterebbe essere onesti nel proprio mandato e agire su basi tecniche validate che per fortuna non mancano nel nostro Paese.
La questione climatica è un altro grande tema mondiale che ci vede in prima linea e sul quale ci si aspetta visione e progetti di transizione ecologica portati avanti con convinzione, non paragrafi aggiunti frettolosamente al programma elettorale. Ad esempio, i due rapporti IEA (Agenzia internazionale per l’energia) e IRENA (Agenzia internazionale per le energie rinnovabili)7 spiegano già molto bene cosa serve, dove e come investire per la transizione ecologica.
Il tema della ricerca scientifica è da sempre considerato un accessorio delle finanziarie, una voce di nicchia sulla quale risparmiare. Così facendo, la mancanza di innovazione e la fuga di cervelli continua a far pagare un prezzo salatissimo allo sviluppo del Paese regalando ad altri risorse preziose. Il Piano quinquennale 2023-2027 per la Ricerca Pubblica firmato da un pool di scienziati8 (tra cui il fisico e accademico Ugo Amaldi, il matematico e direttore della Scuola Normale di Pisa, Luigi Ambrosio accademico dei Lincei, il fisico e accademico dei Lincei Luciano Maiani e l’immunologa e docente della Sapienza Angela Santoni) è già una proposta ragionevole e ragionata per cambiare registro in modo sostenibile ed efficace, non servono altri esempi.
Anche la questione dell’immigrazione dovrebbe uscire definitivamente dalle strumentalizzazioni elettorali ed essere valutata in modo serio e pacato nelle sue implicazioni: sappiamo tutti che è una necessità inevitabile. Una visione costruttiva e condivisa ci darebbe la forza che serve per definire poi l’argomento a livello europeo.
Questa sequenza di emergenze, che potrebbe continuare con altre voci, non è il libro dei sogni, ma la lista delle cose indispensabili da fare che tutti conosciamo in campagna elettorale e che subito dopo evaporano al sole della finanziaria. I soldi per fare quello che occorre ci sarebbero, non paghiamo meno tasse dei nostri partner europei che con le stesse percentuali fanno quello di cui noi non siamo capaci, piuttosto non tutti versiamo quanto dovuto mentre gran parte del denaro raccolto se ne va in sprechi e inefficienze. Anche qui non scopriamo niente di nuovo, ma ci piacerebbe un cambio di passo che una volta tanto non inciampi nella solita sequenza di concordati, sanatorie, rottamazioni e condoni tombali che hanno fatto la storia della repubblica9 e certificato il diritto alla disonestà, anche se fantasiosamente vestita da “pace fiscale”. La legalità è un valore della democrazia indiscutibile, senza trucchi e infingimenti. A fronte di tutto questo il PNRR è una opportunità straordinaria da non sprecare per imprimere la svolta, non ne avremo un’altra così. Anche qui urge un cambio culturale: i fondi europei ordinari, periodicamente assegnati all’Italia, finora siamo riusciti a spenderli solo in parte.
La parentesi Draghi ha poi dimostrato che l’Italia può avere un ruolo autorevole in Europa. Non dovrebbe servire un deus ex machina, ma competenza e un atteggiamento consapevole che esprima al meglio il nostro Paese, a prescindere dal presidente del consiglio di turno. L’Europa sappiamo che ne ha bisogno per fare i passi avanti che ancora non ha fatto e che sono anche di nostro interesse.
Quali valori, quale organizzazione
Lo statuto del Partito Democratico afferma: “Il Partito Democratico è un partito antifascista che ispira la sua azione al pieno sviluppo dell’articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana”. A sua volta l’articolo 3 della nostra Costituzione dice: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica Italiana rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.”
Il manifesto dei valori del Partito Democratico10 sviluppa poi questi concetti in maniera molto articolata, partendo dall’intenzione di “ricollocare l’Italia negli inediti scenari aperti dalla globalizzazione del mondo, riunire gli italiani sulla base di un rinnovato patto di cittadinanza, dare loro la coscienza e l’orgoglio di essere una grande nazione.” Una moderna forma di socialdemocrazia, anche se non viene nominata.Non riportiamo qui i vari passaggi, ma è scioccante scoprire che paradossalmente quello che il PD si era proposto di combattere è proprio quello che in questi anni è stato sostenuto e quello che si voleva realizzare è stato invece disatteso. Tutti i ritardi e i malanni del Paese che abbiamo sopra esposto sono gli stessi elencati nella carta dei valori del PD di quindici anni fa, dai quali non solo non ci si è liberati, ma anzi si è contribuito ad aggravare. Anche con possibili adeguamenti, nel suo insieme quel testo non potrebbe essere più attuale. Sorprende dunque la discussione da più parti innescata sulla necessità di riscriverlo, tanto che viene il sospetto che non sia mai stato letto da chi doveva trarne ispirazione per orientare le scelte del partito. Una ragione in più per ripensare classe dirigente e organizzazione.
Per quanto riguarda l’organizzazione, sempre lo statuto del partito afferma: “Il Partito Democratico affida alla partecipazione di tutte le sue elettrici e di tutti i suoi elettori le decisioni fondamentali che riguardano l’indirizzo politico, l’elezione delle più importanti cariche interne, la scelta delle candidature per le principali cariche istituzionali. … Il Partito Democratico promuove la trasparenza e il ricambio nelle cariche politiche e istituzionali. … ispirandosi ai criteri del merito e della competenza, rigorosamente accertati. … Gli iscritti e le iscritte al Partito Democratico hanno inoltre il diritto di: essere consultati sulla scelta delle candidature del Partito Democratico a qualsiasi carica istituzionale elettiva; … partecipare alla formazione della proposta politica del partito e alla sua attuazione; … Tutti gli elettori e le elettrici del Partito Democratico hanno il dovere di: concorrere alla scelta dell’indirizzo politico e programmatico del partito attraverso la partecipazione alle diverse sedi e ai diversi momenti di analisi, discussione e confronto che costituiscono la vita democratica interna anche attraverso le procedure di elezione del Segretario Nazionale e dell’Assemblea nazionale;” Qualcuno potrebbe sostenere che quanto prescritto sia stato formalmente rispettato in questi anni. La realtà è che tra classe dirigente e base, intesa come circoli, iscritti ed elettori, il dialogo costruttivo è venuto meno. Del resto, se così non fosse non ci troveremmo in questa situazione critica.
Abbiamo idee ma non ricette di come ridisegnare l’organizzazione vitale del partito, è un tema che va affrontato tenendo conto di tanti elementi che non possono essere improvvisati. Ci piacerebbe però che il dialogo con i circoli fosse recuperato in modo pragmatico, pensiamo anche a un “question time” periodico che consenta di verificare lo stato dell’arte di idee e progetti, piuttosto che discorsi di circostanza. In definitiva, quello che è certo è che l’attuale modello non risponde ai requisiti dello statuto e del manifesto dei valori. Pensare di risolvere la questione con l’elezione di un’altra segreteria e un altro congresso di parole senza seguito è prospettiva che consideriamo inaccettabile, ancora una volta nell’interesse del partito e perché riteniamo faccia parte dei nostri diritti e dei nostri doveri di iscritti.
Al dunque
Cosa fare l’abbiamo detto all’inizio di questo documento, il perché subito dopo. Aggiungiamo ora che allo scopo servono sicuramente delle qualità che ci piacerebbe ritrovare nella politica del nostro partito: visione, competenza, passione, coraggio, determinazione, onestà, partecipazione … potremmo andare avanti con altre virtù della politica ma già queste basterebbero per affrontare seriamente quello che occorre e per far capire quanto finora siano mancate.
Come si vede è tutto molto semplice e molto difficile al tempo stesso, ma niente che non sia possibile oltreché indispensabile per rinascere. Questo documento ne è l’espressione schietta e, anche se può apparire retorico, appassionata. Proprio per questo intendiamo portare avanti quanto ragionato e scritto in tutti i modi che siano utili allo scopo, altrimenti nient’altro avrebbe senso, come iscritti a un circolo PD e come persone che hanno fiducia nella buona politica.
1 https://contropiano.org/news/news-economia/2022/10/07/la-globalizzazione-e-finita-il-made-in-italy-dentro-la- tempesta-perfetta-0153133
2 https://www.agi.it/economia/news/2022-01-17/pandemia-dati-ricchezza-italia-15260539/
4 https://www.money.it/Stipendi-parlamentari-senatori-deputati
9 https://speciali.espresso.repubblica.it/interattivi-2016/timeline-lab/timeline.html
