TAVOLO DI LAVORO SU ROMA 2021
Coordinatore: Giorgio Bonifazi Razzanti
Membri: Giuliana Colantonio, Manuel Felsani, Guido Laj, Rosalba Savarese, Emma Cavallucci.
Dicembre 2020
Tutte le grandi imprese nascono da una visione di futuro che scaturisce da un complesso percorso di conoscenza, consapevolezza e forti aspirazioni. È grazie a questa idea che, a un certo punto, un sogno trova l’energia per diventare realizzabile e che l’impegno ad esso dedicato si trasforma in successo.
A Roma questa indispensabile visione manca ormai da più di dieci anni, nessuno degli amministratori che si sono succeduti in Campidoglio ne è stato capace per affrontare le esigenze della città e le aspettative degli abitanti. Malgrado le conseguenze che tutti scontiamo, ancora adesso un’idea progettuale, capace di sostenere la difficile impresa di far rinascere Roma e scaldare il cuore degli elettori, non riesce a trovare spazio nel dibattito della politica concentrata sul nome di chi piuttosto che su per cosa.
Il documento che segue è dedicato a questo obiettivo. Non è un progetto, non abbiamo le risorse per farlo, ma l’individuazione di linee guida utili per consentire a chi invece queste risorse le ha di produrre l’idea di città intorno alla quale articolare la comunicazione e motivare le scelte, incluso il nome del candidato/a sindaco/a che poi di questa idea dovrebbe essere l’interprete.
Le elezioni comunali 2021 sono un tema di prioritario interesse per chi vive a Roma e vorrebbe una decisa inversione di tendenza al progressivo degrado che da anni riguarda tutti i parametri che definiscono la qualità della vita di una città.
Più ci avviciniamo alla scadenza elettorale, più si moltiplicano le manifestazioni di coinvolgimento da parte di singoli cittadini e di libere associazioni nate con l’intenzione di offrire un contributo costruttivo alla svolta che tutti ci auguriamo. Si tratta da un lato di una precisa denuncia delle tante grandi e piccole disfunzioni, dall’altro di proposte a queste risolutive dettate dalla diretta esperienza quotidiana, dal buon senso e, in molti casi, supportate da interventi tecnici pertinenti. In ogni caso sono manifestazioni di grande passione civica che chiede a buon diritto di non essere disattesa da chi avrà responsabilità dirette di governo della città.
Analoghe azioni di mappatura delle problematiche, di rado però corredate da ipotesi solutive, le vediamo soprattutto da parte delle organizzazioni politiche attualmente all’opposizione nel consiglio comunale, in prima linea il PD, per le quali si promette un futuro impegno competente e responsabile in grado di soddisfare le aspettative. Al tempo stesso molto spazio è dedicato dalle stesse forze politiche e dai media ai temi delle alleanze elettorali, degli ineludibili compromessi ai quali orientarsi, dei nomi dei possibili candidati al ruolo di sindaco.
Pur riconoscendo la necessità di partire dagli eterogenei mali che affliggono Roma e, con molta concretezza, dalle esigenze di realpolitik senza la quale nessun obiettivo potrebbe essere raggiunto, quello che va rilevato è tuttavia la mancanza una chiara visione di Roma futura da parte dei soggetti in grado di ispirare e dare senso alle scelte che in nome di questa verranno operate. Non si tratta di una questione formale né di un aspetto secondario che possa scaturire come conseguenza dal programma delle cose da fare. È vero esattamente il contrario. I tanti interventi che animano l’attività propositiva dei cittadini così come quella della politica, sono i preziosi mattoni con i quali ci si propone di ricostruire sia l’Urbs materiale che la Civitas dei suoi abitanti, una impresa che acquista forza solo se ispirata da un progetto finale al quale tendere. Altrimenti si rischia di vanificare tutto in una babele di azioni incoerenti e uno sperpero di denaro. Allo stesso modo come i migliori materiali da costruzione di un edificio possono ben poco se non impiegati secondo un definito progetto architettonico.
Questo argomento viceversa non sembra finora riscuotere tutta l’attenzione che meriterebbe. Eppure mai come in questo momento la domanda latente che motiva il coinvolgimento di donne e uomini che vivono a Roma e che la vorrebbero diversa (e, in un’altra dimensione, si potrebbe dire lo stesso dell’Italia) è quella di avere una prospettiva coinvolgente, chiara e condivisa, che dia la fiducia, l’energia e la passione indispensabili che occorrono a ognuno e a tutti per affrontare il futuro. Fiducia, energia e passione per costruire, al di là della protesta e oltre la rabbia populista, proprio tutto quello che fino ad oggi ci sembra manchi colpevolmente nell’offerta della politica.
Come abbiamo detto lo scopo del lavoro svolto da questo circolo ed esposto nel documento è dunque di sensibilizzare il PD alla creazione di un progetto/contenitore riconoscibile – non vediamo quale altro partito possa e debba farlo – delle iniziative di risanamento e rilancio della città che sappia raccogliere la passione di tanti cittadini e di restituirla in una visione ambiziosa di Roma futura, all’altezza della sua storia e della sua immagine nel mondo, e soprattutto di chi ci vive e la rende viva. C’è una città che ha bisogno e diritto di sognare, sta a noi aprire gli occhi e far sì che possa divenire realtà.
L’abbiamo già fatto, con successo
Come conosciamo, l’amministrazione di Roma da almeno dodici anni è progressivamente scivolata in un avvitamento di incompetenze, irresponsabilità e malaffare che hanno danneggiato tanto la città quanto il carattere e la civiltà degli abitanti. Non serve qui fare l’elenco delle disgrazie, le riscontriamo sulla nostra pelle nell’esperienza quotidiana e le apprendiamo, per altri aspetti, dalle cronache giudiziarie. Oltre al precipizio dei servizi considerati basilari di ogni grande città, ci preme invece evidenziare come il degrado si sia alla fine e inevitabilmente trasmesso alle persone. Insofferenza, non rispetto alle regole, aggressività, prepotenza, indifferenza, sono alcuni degli infelici attributi che sempre più spesso possono essere accostati al comportamento di concittadini esasperati dall’impatto logorante che ogni giorno devono sostenere con quello che non funziona. Anche di questo poco si parla, come se disservizi e penalizzazioni non avessero un riflesso condizionante sui comportamenti e sulle relazioni interpersonali nel lavoro, nel tempo libero e negli impegni che fanno parte della quotidianità di ognuno. Un danno che si traduce nello scadimento della resilienza civile di chi lo subisce (pensiamo solo allo stress per raggiungere il posto di lavoro causato da una viabilità menomata e pericolosa o da trasporti pubblici inefficienti e altrettanto pericolosi), e un po’ per volta atrofizza le capacità di produrre, di crescere e di creare benessere. Ogni tanto questa condizione di sofferenza viene certificata da indagini e sondaggi, li abbiamo letti: Roma è 81a su 82 nella classifica delle più grandi metropoli mondiali dove trasferirsi (Expat City Ranking 2020); per qualità della vita dei capoluoghi di provincia italiani passa nel 2018 dalla 67a alla 85a posizione (indagine 2018 Italia Oggi – La Sapienza); la peggiore tra le 28 capitali europee per qualità della vita (Eurobarometro 2015, ultima indagine effettuata). Posizionamenti che del resto ogni romano in viaggio per altre città europee può verificare di persona misurando amaramente di anno in anno l’allargarsi del divario.
È così oggi ma non lo è stato sempre. Abbiamo avuto anni nei quali amministrazioni illuminate, ma basterebbe dire semplicemente responsabili e competenti, hanno fatto crescere la città e il senso di appartenenza dei cittadini.
Giulio Carlo Argan, nel 1976 viene eletto sindaco di Roma. È un prestigioso intellettuale di sinistra, anziano storico dell’arte di fama internazionale, romano di adozione. Argan raccoglie una Roma devastata dai palazzinari e piegata dagli anni bui del terrorismo, una città dove le periferie sono una realtà miserevole, enorme e invisibile, totalmente slegata più che contrapposta al centro storico. L’idea centrale e dichiarata di questo sindaco è che “la città è cultura, niente altro che cultura”. Sembra un’idea folle in quel contesto, ma Argan spiega a tutti che cultura, oltre alla salvaguardia dei monumenti, significa anche dare una casa e possibilità di crescita a chi vive nelle borgate, significa motivare e stimolare lo studio per tutti come motore sociale di crescita civile tanto quanto di benessere. Per molti è un azzardo, ma Argan dimostrerà di avere ragione. È con lui che inizia il grande piano di risanamento delle borgate e ricucitura con il resto della città, si avvia il progetto di una seconda università oltre La Sapienza, parte il rilancio dei Fori Imperiali, nasce con Renato Nicolini l’Estate Romana, quella che diventerà il marchio di fabbrica di una nuova, bella stagione di Roma.
Ad Argan succederà un altro sindaco visionario, Luigi Petroselli. Proviene dalle file del PCI, impegnato da sempre sul campo delle lotte di lavoro, è di Viterbo, sembrerebbe niente di più lontano dal sindaco che lo ha preceduto. Invece Petroselli raccoglie l’idea di Argan e la porta avanti in modo brillante, parlando in modo semplice ma arrivando al cuore dei problemi e della gente. Governerà per solo due anni. La morte improvvisa interrompe la sua azione, ma quei due anni sembreranno venti al confronto di quanto fatto da altri sindaci. Riqualificazione e riconnessione delle periferie, illuminazione, strade, acquedotti, fognature, spazi verdi pubblici, parchi giochi, centri anziani, biblioteche di quartiere, scuole elementari, asili nido, il tratto A della metropolitana. Petroselli dimostra a tutti che lavorando con passione, onestà e competenza non c’è obiettivo che non possa essere raggiunto. Sarà ricordato come il sindaco più amato dalla popolazione. Solo due anni.
Sono storie che conosciamo, o che dovremmo conoscere. Ma vale la pena ricordarle qui perché ogni tanto per capire dove stiamo andando è bene ricordare da dove veniamo.
A questi due sindaci seguiranno più di dieci anni dove l’onda lunga da loro avviata finirà purtroppo per scemare in modo incolore senza passioni e senza lasciare tracce innovative degne di memoria. Un periodo che si chiuderà in modo poco glorioso con un sindaco recapitato a Roma dalla Milano da bere socialista mentre mani pulite ridisegnava la mappa del potere politico in Italia.
Sarà Francesco Rutelli nel ’93 il nuovo sindaco che riprenderà il filo interrotto, un’altra bella stagione che continuerà e crescerà ancora con Walter Veltroni a partire dal 2001. Questi sindaci sono consapevoli dell’eredità di Argan e Petroselli, ma sanno anche interpretare i nuovi bisogni della città e, ognuno a modo suo, avvalersi di una squadra di collaboratori culturalmente e professionalmente capaci. Nasce il “modello Roma”, l’idea di una città moderna nella sua interezza, dalle periferie al centro dove, ancora una volta, la cultura sarà motore e ispirazione degli interventi. Ricordiamo la variante al piano regolatore per promuovere le aree verdi e le opere di viabilità per collegare la città (le terze corsie della Roma-Fiumicino e del GRA, la “cura del ferro”: dalle ferrovie extraurbane alle urbane, al Metrebus e la linea del tram 8, l’ampliamento metro a Battistini, l’avvio della galleria Giovanni XXIII), le azioni e i progetti di rilancio della vivibilità urbana come le “cento piazze” e della cultura come le Scuderie del Quirinale, la Centrale Montemartini, il MACRO, l’Ara Pacis, i progetti del Parco della Musica e della Nuvola, e poi iniziative di successo per promuovere i giovani talenti che nascono e trovano spazio vitale nella città.
Non si può non sentirsi scoraggiati nel confronto con la miserevole pochezza dei nostri giorni, ma che all’attuale sindaca è sembrata più che sufficiente per una arrogante ricandidatura.
Oltre ad essere tutti usciti dal centrosinistra, cosa avevano di diverso Argan, Petroselli, Rutelli e Veltroni dagli altri sindaci della capitale?
Avevano prima di tutto una visione chiara di cosa dovrebbe essere Roma, per consapevolezza della sua storia, del suo posto nel mondo e sapendo guardare al futuro. Avevano capacità di ascolto per capire problemi e intercettare le aspettative dei suoi abitanti. Erano riusciti a raccogliere intorno a sé collaboratori intelligenti e capaci. Riscuotevano fiducia perché sapevano dare fiducia. Suscitavano passione perché la mettevano loro per primi.
Sicuramente ognuno di loro aveva tante altre qualità (e visti i tempi dovremmo aggiungere onestà e correttezza) ma crediamo che queste siano state il tratto comune che ha fatto la differenza e ha determinato il loro successo. Una ricetta così difficile da reinterpretare?
Allargare visuale e orizzonte
Prima di affrontare le tante, gravi deficienze accumulate nel corso di questi anni, pensiamo sia dunque indispensabile, per chiunque si proponga di amministrare la città, provare a guardare dall’alto per capire meglio il contesto nel quale ci troviamo ad operare.
L’emergenza Covid 19, nelle drammatiche restrizioni alle quali ha costretto il lavoro e il tempo libero di tutti, è stato l’acceleratore di complessi fenomeni sociali in atto e ha spinto in avanti malesseri e trasformazioni che la nostra politica già da prima faceva fatica a seguire e a comprendere.
Parliamo dell’inafferrabile post società liquida, di gig economy, di e-commerce, dell’irruzione nella vita sociale e nel mondo del lavoro delle nuove tecnologie dell’informazione, dei big data, dell’intelligenza artificiale, di quell’insieme di fenomeni che stanno trasformando radicalmente il mondo intorno a noi e di cui il populismo arrembante sembra essere la sola, tra le tante conseguenze, che la nostra politica abbia afferrato nelle sue implicazioni ma non nella complessa articolazione delle sue cause.
Difficile trovare traccia di questi argomenti nelle cronache e nei temi che animano il nostro Parlamento e le segreterie dei partiti. Eppure la trasformazione, fuori dai nostri confini, continua ad andare avanti veloce e inventa nuovi, potenti strumenti per una guerra globale dell’economia alla quale rischiamo sempre più di ritrovarci armati di arco e frecce.
Cosa c’entra tutto questo con i problemi di Roma?
Il fatto è che, assorbiti dalle meschinità sul continuo rappezzo delle tante cose basilari che non funzionano, abbiamo completamente perso di vista quello che dovrebbe essere il ruolo e la missione di una grande capitale europea. Una città come Roma, al pari delle sue simili, dovrebbe essere un luogo di opportunità mondiali per la crescita e lo sviluppo. La consapevolezza dei grandi cambiamenti globali che modificano la visione della società e del lavoro, dovrebbe far parte del suo DNA e delle scelte che di conseguenza vengono operate. A maggior ragione per la storia unica e per quanto avrebbe da offrire in modo esclusivo a chiunque l’avvicinasse per ragioni di lavoro, di studio o di turismo. Solo all’interno di questa dimensione può trovare risposta quell’interminabile elenco di problematiche che la città ha accumulato e che continuiamo a denunciare.
Questa ineludibile ragione di esistere (e di dare anche un senso alla sigla di Roma Capitale) è ora che torni a far parte integrante di una proposta politica, per quell’elettorato che non si è rassegnato alla farsa di questi anni e che alla fine, siamo convinti, rappresenta la maggioranza dei romani.
Se questo dovesse essere l’orientamento va da sé che allora, prima ancora di parlare di quale candidato sindaco, si debba lavorare sull’idea di Roma futura di cui abbiamo detto all’inizio, che sappia dare risposte ai problemi e cogliere opportunità per tutti, che faccia percepire il salto di qualità e trasmetta passione rispetto alle altre proposte politiche fin qui confuse e senza un’anima. Il nome al quale affidare la sua realizzazione avrebbe allora un senso e la campagna elettorale degli argomenti più appassionanti dei quali più facilmente trovare una vincente sintesi di comunicazione.
Altre città, altri esempi
Cos’è dunque un progetto di città che guarda al futuro? Non un semplice contenitore di interventi diversi, ma la sua sintesi, il punto di partenza e di arrivo di tutto quello di cui città e cittadini hanno bisogno per affrontare il futuro.
Come sempre il confronto con realtà che hanno saputo guardare in questa direzione e affrontare con successo il cambiamento dovrebbe essere un’irrinunciabile fonte di ispirazione e per capire anche quanto tutto viaggi velocemente e richieda capacità di interpretazione in continuo divenire.
Abbiamo tanto detto ad esempio delle Smart Cities (dalle nostre parti ancora oggetto di aspirazioni futuribili) che nel frattempo risultano già in parte superate da modelli che mettono al centro il tema del tempo, quello dedicato agli spostamenti casa, lavoro, scuola, divertimento, spese, servizi: ridurre lo spazio/tempo sprecato significa recuperare possibilità di miglioramento della qualità della vita.
Come noto la “città 1/4h” – tutto raggiungibile in un raggio di 15 minuti a piedi – è l’idea di Carlos Moreno che ha fatto vincere le elezioni ad Anne Hidalgo come sindaco di Parigi. È la città di prossimità, lontana anni luce dalla megalopoli intelligente. Un’idea che, nella apparente semplicità della sua formulazione, racchiude in realtà la soluzione a un insieme di problemi complessi che vanno dall’inquinamento, allo stress, alla sicurezza, al commercio, all’efficienza e al costo di tutti i servizi dell’amministrazione, al rilancio delle opere pubbliche. Un ripensamento dell’intera macchina della città attraverso nuovi parametri con unico obiettivo finale il benessere dei suoi abitanti. Un’impresa coraggiosa per il rivoluzionario cambio di mentalità (si pensi alla progressiva rinuncia alla mobilità individuale su gomma) che però risponde in modo intelligente alle aspettative e che gli abitanti di Parigi hanno capito e premiato.
Altro esempio, le “Superilles” di Barcellona. Altra formulazione dello stesso concetto di tempo, di spazio e di benessere: la città qui è ripensata per blocchi di 9 isolati, dei veri e propri distretti all’interno dei quali le auto sono escluse, si può passeggiare e giocare in strada, meno inquinamento, meno stress, maggiore sensazione di libertà e benessere. La sindaca Ada Colau ha vinto le elezioni con questo tema, dietro al quale, anche in questo caso, non è difficile scoprire una visione e una ristrutturazione profonda della vita cittadina e della macchina amministrativa.
Si può andare avanti con altri esempi di città di successo, ma ci troveremmo sempre ad individuare lo stesso percorso: analisi delle problematiche, individuazione delle aspettative, visione di futuro possibile, progetto di cambiamento. La ricetta è tutta qui, ma richiede molta decisione, competenza e altrettanto senso di responsabilità, senza scorciatoie né furbesche improvvisazioni. Chi deve con il voto dare la propria fiducia è in grado di capire, la storia lo dimostra.
Lavoro e benessere, un binario per arrivare a destinazione
Nel confronto di idee per individuare approccio ed elementi dai quali muovere, siamo giunti alla conclusione che, per qualsiasi tema rientri nel progetto, sia prioritario valutare sempre la ricaduta diretta su due aspetti: il lavoro e il benessere.
Non c’è questione, problema o opportunità, che non abbia direttamente o indirettamente un riflesso su entrambi e in modo che la qualità dell’uno influenzi sempre la qualità dell’altro.
Di tutte le attività il lavoro è oggettivamente quella che riconosciamo più in crisi. L’analisi delle ragioni e delle conseguenze non è argomento sul quale intendiamo addentrarci qui, altri lo fanno meglio di quanto potremmo ed esiste una esaustiva letteratura in materia. Riteniamo solo indispensabile ricordare quanto le evoluzioni tecnologiche e le implicazioni della globalizzazione abbiano tracciato dei nuovi percorsi del lavoro che da un lato hanno creato nuove opportunità e nuove tipologie di specializzazione, ma dall’altro hanno profondamente modificato, in molti casi messo completamente fuori mercato, tanti mestieri e tante professioni. Fenomeni che appartengono da sempre alla storia, ma che stavolta avvengono con tale rapidità e pervasività da non lasciare spazio all’adattamento senza traumi. Giusta o sbagliata che sia, questa realtà continua a materializzarsi sotto i nostri occhi e, come vediamo, a poco serve l’arroccamento difensivo con l’attrezzatura delle tutele per i lavoratori conquistate nei passati decenni. L’emergenza Covid 19 ha solo stressato il fenomeno portandolo in molti casi alle vere, drammatiche rotture sociali che stiamo vedendo, con l’innalzamento della quota di povertà e la divaricazione sempre più marcata tra classi sociali.
Non avrebbe dunque senso dare corpo a qualsivoglia disegno di Roma futura che non preveda, per ogni intervento di qualsiasi natura, quale positiva ricaduta possa avere sulle opportunità di lavoro per gli abitanti. E che sia, aggiungiamo subito ed evidenziamo, di qualità. L’impegno per uscire dall’angolo infatti non può che essere per la creazione di opportunità capaci di agganciarsi ai cambiamenti in atto nel mondo del lavoro e che lascino intravedere, se non assicurare, lo sviluppo qualitativo nel tempo e il rispetto della dignità della persona prima di tutto. Questa costante attenzione dovrebbe essere dedicata in primo luogo alla possibilità di creazione e sviluppo di nuove imprese attraverso agevolazioni e semplificazioni (partendo da quelle burocratiche: 78 adempimenti per aprire una falegnameria!) in grado di dare fiducia a idee innovative e attirare investimenti, innescando un circolo virtuoso che, specialmente per i giovani, rappresenti un’alternativa concreta alle miserie della gig economy. Dovrebbe essere superfluo dirlo, ma a questo proposito bisogna ricordare come la creazione di lavoro di qualità, e quindi di ricchezza, sia poi la condizione imprescindibile per avere le risorse economiche necessarie senza le quali non sarebbe possibile risolvere problemi e realizzare progetti per la città, evitando che, come già successo tante volte, rimangano promesse non mantenute e sogni nel cassetto.
Il concetto di benessere al quale facciamo riferimento ha un’accezione che si identifica con i parametri che di solito determinano la qualità della vita. Il MEF li ha definiti a suo tempo con la legge 163/2016 “Il benessere equo e sostenibile” (al governo PD, con Renzi) attraverso 12 parametri: 1) Reddito medio disponibile; 2) Indice di diseguaglianza del reddito disponibile; 3) Indice di povertà assoluta; 4) Speranza di vita in buona salute alla nascita; 5) Eccesso di peso; 6) Uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione; 7) Tasso di mancata partecipazione al lavoro con relativa scomposizione per genere; 8) Rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e delle donne senza figli; 9) Indice di criminalità predatoria; 10) indice di efficienza della giustizia civile; 11) Emissioni di CO2 e altri gas clima alteranti; 12) indice di abuso edilizio. In apertura del relativo documento si dichiara: “Il miglioramento del benessere dei cittadini e della società è il fine ultimo delle politiche”. Le intenzioni e i principi del dispositivo sono chiari e condivisibili, così come quegli altri creati per la classifica delle città italiane più vivibili dal Sole 24 Ore o quelli analoghi per le capitali europee delle indagini UE. Questi parametri, trasferiti nella dimensione di Roma Capitale, pensiamo andrebbero comunque riconsiderati, per misurare i più topici per Roma, a partire dagli aspetti critici come la facilità di spostamento pubblico, l’efficienza dello smaltimento rifiuti, la percorribilità delle strade (argomenti questi ineludibili su i quali non ci soffermiamo in quanto da considerare alla base di qualsiasi progetto credibile), e poi la fruibilità del verde pubblico, l’accessibilità per i diversamente abili, l’offerta culturale, e così via di seguito, non sta ora a noi l’individuazione e l’ordine. Come si vede però, con uno studio adeguato, ce ne sarebbe per monitorare tutte quelle criticità che oggi collocano Roma in fondo alle classifiche e soprattutto logorano la civiltà dei suoi cittadini.
Il lavoro e il benessere dunque, come binario sul quale collocare e far viaggiare le politiche e i progetti per il futuro di Roma. Denunciare questo principio come metodo potrebbe sembrare pleonastico, ma ci siamo resi conto come nella progettazione e nello sviluppo di tante iniziative, a volte con le migliori intenzioni, non verificando ex post il raggiungimento e le conseguenze degli obiettivi, si sprechino risorse e si vanifichi l’impegno di tante persone. Costringere subito alla lettura della ricaduta reale su lavoro e benessere dei cittadini ci sembra un buon metodo da adottare per valutare l’iniziativa, porre gli eventuali correttivi, deciderne la prosecuzione o meno, fugare zone d’ombra, tagliare polemiche. Ci si passi il paragone, non sempre gradito in politica, ma è quello che nel privato farebbe qualsiasi azienda responsabile nel rispetto del mandato degli azionisti per assicurare crescita e futuro.
Patrimonio, risorse, opportunità
Per immaginare e progettare il futuro di una città, un passaggio preliminare indispensabile è la valutazione delle qualità che costituiscono il suo patrimonio originale, ne determinano la personalità e la caratterizzano agli occhi del mondo. In altre parole la sua vera ricchezza. Queste peculiarità diventano di solito fonte di ispirazione per le decisioni amministrative destinate a modernizzare la città, a promuoverne lo sviluppo e di conseguenza il lavoro e il benessere di chi ci vive.
Cultura
Quando si parla di Roma è inevitabile partire dalla eccezionale dimensione del tesoro storico e artistico. Le meraviglie custodite dalla città sono un tale concentrato di capolavori da farne la gemma più preziosa del patrimonio italiano dei beni culturali, un luogo unico al mondo, ne siamo tutti consapevoli. Per capire meglio però cosa rappresenti e come questa eccezionalità sia considerata nell’operato di chi è chiamato ad amministrarla, pensiamo convenga partire dalla dimensione nazionale dove la maggiore disponibilità di dati aiuta ad inquadrare meglio quanto poi riguarda direttamente Roma.
Con la cultura non si mangia, diceva un ministro delle finanze. Eppure Giulio Tremonti, magari a sua insaputa, affermava una sconcertante verità. In Italia è concentrato il maggior numero di patrimoni dell’umanità riconosciuti e tutelati dall’Unesco, ben 54, al secondo posto con 52 c’è la Cina, 32 volte più grande dell’Italia, tanto per intenderci. Si parla di un insieme di 4.000 musei, 6.000 siti archeologici, 85.000 chiese tutelate, 40.000 dimore storiche censite. Per non parlare dell’arte spontanea della natura: una benedizione di coste, riserve, paesaggi naturali, altro patrimonio che rimane straordinario per quanto soggetto all’incuria e alla speculazione. Ma le belle notizie finiscono qui perché per sostenere e promuovere questo capitale l’Italia è viceversa tra i Paesi che investono meno in cultura: penultimo posto della classifica europea con contrazione del -33,3% media annua nel periodo 2009/2011 (nello stesso periodo l’analoga contrazione in Grecia fu del 14,3%). Il numero degli addetti di settore, lo sappiamo da Eurostat, in Italia sono in costante riduzione: 3,4% degli occupati totali, al 19° posto su classifica europea di 28; meno del 50% ha una laurea; siamo al 26° posto per quanto riguarda poi l’età media: 54 anni per i dipendenti e 57 per i dirigenti, con tasso di assunzione dello 0,013% mentre nel resto di Europa la crescita degli impegnati in attività culturali viaggia mediamente al 7%. Ed ecco allora la domanda importante che ci si dovrebbe porre: quanto rende comunque questo patrimonio? Poco, molto meno di quello che dovrebbe se consideriamo che il ritorno economico degli asset culturali in Francia e Regno Unito è tra 4 e 7 volte maggiore di quello italiano. Ne siamo consapevoli? Il ministro Franceschini ci fa sapere che dovrebbe essere evidente a tutti come investire nella cultura e nell’arte non faccia bene «solo alle menti e alle anime, ma anche all’economia del Paese». La ricerca commissionata dal suo ministero alla Boston Consulting Group ci informa che il potenziale inespresso del settore potrebbe portare, nei prossimi sette anni, a raggiungere una cifra pari a 40 miliardi di euro, che impatterebbero positivamente sul Pil italiano: i ricavi dai visitatori potrebbero arrivare a toccare il miliardo di euro, mentre i posti di lavoro potrebbero diventare 200 mila.” Siamo cioè seduti su un vero tesoro, da qualsiasi punto di vista, già perché non si tratta evidentemente solo di entrate da turismo ma di una macchina molto più complessa che potrebbe avere innumerevoli ricadute sul lavoro e sul benessere di tutti, non ci vuole molta fantasia per rendersene conto. Ce lo ricorda ancora una volta l’Europa nel riconoscere il patrimonio culturale come risorsa “per la crescita economica, l’occupazione e la coesione sociale, con il suo potenziale di rivitalizzazione delle aree urbane e rurali e di promuovere un turismo sostenibile” e che la partecipazione culturale abbia “un impatto significativo sulla qualità della vita delle persone, contribuisca largamente al loro benessere e le aiuti a integrarsi nella società” (European Framework for Action on Cultural Heritage – 2018). È dunque vero, con la cultura non si mangia, almeno fino a quando la nostra politica non deciderà di aprire gli occhi e guardare dove occorre.
A questo punto dovrebbe essere più facile capire la grande ricchezza e la miseria di Roma che di questo patrimonio nazionale è il pezzo più prezioso (l’intero centro storico della città, caso unico al mondo, è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità). Superfluo elencare le innumerevoli realtà artistiche, architettoniche ed archeologiche che in questo settore, tra musei, piazze e siti, fanno di Roma l’indiscutibile numero uno a livello planetario. Mentre invece è bene ricordare che il primato di Roma non poggia esclusivamente sulla straordinaria presenza fisica di capolavori artistici, ma prende vita anche e molto da attività professionali che operano nel grande settore della cultura. Come non dire ad esempio dell’industria del Cinema che a Roma, al di là delle glorie storiche di Cinecittà degli anni ’50 e ’60, ha da sempre un punto di riferimento e un primato. Questa realtà, nella estensione della produzione televisiva e per la rete, ha nei numeri l’evidenza della leadership nazionale: il 30% delle imprese e il 50% degli occupati del settore sono a Roma, vale a dire 956 imprese per 26.100 addetti (a Milano, numero due in Italia, le imprese sono 649 per 14.602 lavoratori). E in buona salute, con incremento significativo negli ultimi dieci anni: +9% le imprese, +23% gli occupati (Milano nello stesso periodo rispettivamente +1% e +4%). Un settore che, malgrado la crisi da Covid 19, si presenta ancora ricco di opportunità anche a livello internazionale. E non è l’unico:
altri settori emergenti nell’area grande della cultura sono i cosiddetti “lavori creativi”, un “comparto fatto di specializzazioni nelle espressioni artistiche e culturali e, insieme, delle “industrie” di servizi e manifattura che sudi esse poggiano. Dal design alla moda, dal digitale applicato ai beni culturali ai videogiochi: solo per citarne alcuni. Sono attività che impiegano complessivamente circa 1,5 milioni di persone in Italia, con una produzione di 96 miliardi e un indotto che ne vale 265: un pezzo molto importante dell’economia italiana: qualitativamente e quantitativamente. In questo quadro la prima regione italiana è proprio il Lazio, che, secondo i dati della Fondazione Symbola, ha un valore aggiunto di circa 15 miliardi e occupa circa 210 mila persone.” (Il Messaggero 19/10/20) Un’altra risorsa preziosa che merita grande attenzione (agevolazioni, servizi, connessioni ultra veloci) per far sì che questa classe creativa trovi in Roma il posto ideale dove esprimersi per trasformare le idee in prodotti e servizi ad alto valore aggiunto. Va in questo senso il programma LazioCreativo della Regione che mira ad un ecosistema che trova in Roma il suo centro per naturale vocazione, ma è evidente che molto c’è da fare per trasformare realmente la città in un riconosciuto luogo delle opportunità.
Ciò nondimeno la sensazione è che le potenzialità della straordinaria condizione di Roma siano ben lontane dall’essere comprese per quello che valgono. Serve cultura per capire il valore della cultura, almeno un po’, e al momento anche quel poco pare non basti in Campidoglio, malgrado l’attuale assessore alla cultura Luca Bergamo sia persona le cui esperienza e capacità non dovrebbero essere messe in discussione. In definitiva rimane però l’evidenza di un vuoto progettuale complessivo là dove questo sarebbe indispensabile per aspirare a quel salto di qualità che dicevamo farebbe rinascere la città, a dimostrazione che un assessorato non basta se appunto manca una visione complessiva e condivisa di cosa si potrebbe e si dovrebbe per il futuro di Roma.
Cultura significa crescita da qualsiasi punto di vista, come aveva detto e dimostrato Argan. I numeri, gli studi e gli esempi li abbiamo sotto il naso. Non possiamo pensare che il PD affronti questa tornata elettorale per Roma senza aver fatto di questo tema uno degli elementi portanti, se non il principale, della sua proposta.
Verde
Se si guarda verso Roma dall’alto di Rocca di Papa sorprende scoprire la quantità di verde che pervade la città. Non sempre ne siamo consapevoli, Roma è la più verde tra tutte le capitali europee: 67% del territorio comunale, 85 mila ettari su 129 mila totali, 34,7% di verde cittadino. Il Green Cities Index 2018, la classifica mondiale delle città più verdi al mondo, la colloca al 10° posto per estensione e al 7° per quanto riguarda il verde pro capite: 166.5 m2 per abitante. Una vera ricchezza suddivisa in parchi, riserve naturali e verde urbano che a sua volta comprende gli innumerevoli parchi urbani, le ville storiche e i giardini pubblici.
Al di là di tipologie e dimensioni quello che poi andrebbe evidenziato è il valore culturale di questi spazi, spesso impreziositi da architetture, monumenti e resti archeologici di grande bellezza che fanno l’ulteriore differenza, difficilmente misurabile, con il verde di qualsiasi altra città al mondo.
Difficile in questo ambito non considerare la presenza del Tevere che in buona parte alimenta e articola il verde che attraversa. Il terzo fiume italiano non è certo confrontabile per dimensione e portata con altri famosi come la Senna, ma ha un valore indubbiamente esclusivo se anche in questo caso si mettono insieme natura, paesaggio e storia. Risalendo dalla foce a partire dalla necropoli di Porto e da Ostia Antica, sono tante le preesistenze archeologiche di straordinario rilievo come per nessun altro fiume che attraversa una città. A dispetto di una occasionale ma generalmente scarsa considerazione il Tevere è un potenziale parco fluviale ricco di flora e fauna, navigabile per molti tratti, un percorso tanto lungo quanto spettacolare per fare attività fisica a piedi e in bicicletta, un luogo di ritrovo e di vita sociale che offre una dimensione sorprendente della città, una via di complementare trasporto pubblico. Qualità e possibilità oggi poco considerate o utilizzate in modo sciatto, con pochissima cura dell’ambiente e senza una visione che faccia percepire il fiume come parte viva e integrante del patrimonio urbano.
Non va poi dimenticato che Roma è anche il più grande comune agricolo europeo. 50 mila ettari di coltivazioni (di cui l’amministrazione capitolina gestisce direttamente due grandi aziende agricole: Castel di Guido e la Tenuta del Cavaliere per un totale di 2.300 ettari). Altre potenzialità di lavoro nella dimensione green che offrirebbero opportunità di un settore ovunque in forte recupero di valorizzazione.
Un insieme dunque che caratterizza in modo straordinario la città in cui viviamo e che offre gratuitamente a ogni abitante quello che altrove è spesso un sogno impossibile.
Quanto ne siamo consapevoli? Cosa si fa per cogliere tutte le opportunità che anche qui potrebbero generare nuovo lavoro e maggiore benessere per tutti?
Come sappiamo, ben poco. La manutenzione del verde è prevalentemente di emergenza e la crescita qualitativa dell’offerta neppure presa in considerazione. Il personale del Comune per la manutenzione, del resto, è passato dai quasi 2.000 addetti del 1995 agli effettivi 250 di oggi: 20 giardinieri a circoscrizione. Questa sparuta compagine gestisce a mala pena il 41% del verde urbano, il 30% va in appalti esterni, un 10% a cooperative e un 10% ad AMA (!), più un pulviscolo di micro appalti ad altri dipartimenti e municipi. Tutto si riduce appunto a interventi di emergenza occasionali e più che altro si trasforma in abbandoni veri e propri che immiseriscono il patrimonio verde e che paradossalmente lo rendono in alcuni casi pericoloso per la vita stessa degli abitanti.
L’idea sulla quale lavorare, al di là del recupero e della fruibilità totale di parchi e giardini urbani, poteva essere invece di un piano di ricucitura intelligente tra il verde e le tante periferie in un sistema di utilizzazione e di mobilità sostenibili, capace di riqualificare e integrare intere aree della città oggi abbandonate a sé stesse. Del resto, senza bisogno di sprecare tante parole, si tratta di quanto è già stato proposto molto bene da Renzo Piano in una visione di recupero delle città italiane, di cui Roma dovrebbe essere la prima.
Ad onor del vero va segnalato che, sul finire di luglio, in vista delle nuove elezioni e dopo l’autoricandidatura di Raggi, l’attuale giunta ha deciso di presentare “l’Anello Verde” un ambizioso piano di riqualificazione ambientale, di mobilità e di sostenibilità le cui intenzioni, a quello che è dato capire dalla conferenza di presentazione, sembrano muovere nella giusta direzione. Un progetto la cui credibilità però stride con quanto non fatto in più di quattro anni e nel confronto con il tempo e le energie dedicate invece alla questione opaca del nuovo stadio della Roma. Si percepisce anche qui la disomogeneità culturale e l’incapacità dell’amministrazione di lavorare in modo chiaro, fin dall’inizio, su una visione di Roma futura, per cui si cerca ora di recuperare, purtroppo è questa la sensazione, in zona Cesarini.
Becomers
Roma, con 14 atenei, ha il primato della città più universitaria d’Italia. L’università degli studi La Sapienza di Roma con oltre 100 mila studenti ha il maggior numero di iscritti e con 179 corsi di laurea è al primo posto in Italia nell’offerta didattica. Sempre La Sapienza, nel ranking qualitativo dei mega atenei italiani del CENSIS, precede Milano nel gruppo di testa delle migliori, mentre è prima nella classifica del MIUR. Anche visti da fuori, secondo l’ultimo rapporto del CWUR (Center for World University Rankings), La Sapienza viene valutata come la migliore realtà universitaria italiana. La situazione si conferma positiva anche negli atenei non statali dove, sempre secondo il rapporto CENSIS, le università LUISS e LUMSA sono al primo e secondo posto, avanti allo IULM di Milano.
In totale a Roma si tratta di 230 mila iscritti a corsi di laurea universitaria, provenienti in larga maggioranza dal centro e sud Italia. Una cospicua presenza giovanile orientata al futuro professionale del lavoro, a maggior ragione se si considerano anche gli istituti di specializzazione professionale superiore, che non ha pari nel resto d’Italia e che caratterizza fortemente la città.
Roma è anche al secondo posto, dopo Milano, nella classifica delle città italiane dove prende vita il maggior numero di startup per la creazione e la commercializzazione di prodotti/servizi innovativi ad alto valore tecnologico. Un settore sempre più vitale per l’economia con elevate potenzialità di sviluppo dove, per la domanda di competenze specifiche insieme alla capacità di spaziare in ambito multiculturale, prevale la componente giovanile laureata o in possesso di titoli di studio equivalenti. A Roma è una importante realtà, meglio comprensibile se si considera il contesto della città per dimensione e articolazione tanto del tessuto produttivo quanto della vita sociale a tutti i livelli.
Non ci vuole molto a individuare nella positiva combinazione di grande disponibilità tra università e startup un potenziale di futuro per questi giovani (li abbiamo chiamati Becomers, un insieme che va dai Millenials alla Generazione Z) e quindi per tutta la città, che potrebbe decollare se solo si rivalutassero le deficienze che attualmente frenano le loro iniziative . Ci riferiamo alla scarsa presenza di incubatori e acceleratori di impresa, così come alla non riconosciuta vocazione internazionale della città e, ancora una volta, alla disastrosa condizione dei suoi servizi. I giovani talenti e le startup hanno bisogno per prosperare di infrastrutture che funzionino, dunque trasporti, rete informatica, agevolazioni e incentivi, così come di luoghi di incontro reale e di ispirazione.
Passi in questa direzione son stati intrapresi dalla Regione con iniziative come ad esempio “Garanzia giovani” e “Torno subito”, ma siamo ancora molto lontani da quello di cui la città potrebbe e dovrebbe.
Al dunque
La città che vogliamo è dunque una capitale europea moderna, che ritrova la sua personalità partendo dalla propria la storia e guardando ai modelli di sviluppo innovativo di altre città di successo come Parigi e Barcellona, che mette al centro del suo progetto la cultura, il verde e le nuove generazioni, come risorse dalle quali attingere per creare lavoro in ogni campo e benessere per tutti. E dove appunto tanto la creazione di lavoro di qualità quanto l’innalzamento del benessere nel fruire la città siano considerati i parametri per misurare il successo di ogni iniziativa.
Quello che ora ci sta a cuore, ed è ripetiamo la ragione del documento, è far sì che il Partito Democratico, sappia su queste basi individuare e comunicare la sua idea/progetto di Roma futura, a prescindere dal nome del sindaco/a. Allo scopo abbiamo fornito una serie di indizi e una direzione verso cui muovere che siamo convinti rispondono pienamente alle aspettative dei cittadini di Roma e alle esigenze di questo determinante passaggio elettorale.
Non possiamo qui non ricordare quanto allo scopo sia anche indispensabile cogliere il desiderio di coinvolgimento che proviene dalle parti più sensibili e motivate della cittadinanza. Da tutte le realtà associative e civiche arriva infatti una sempre più viva richiesta di partecipazione che non si limita semplicemente al voler essere ascoltati ma vuole incidere nel disegno delle soluzioni e nell’individuazione delle priorità. Di contro spesso dal partito si registrano chiusure, se non formali di sostanza, nel timore di essere scavalcati nella rappresentanza delle vertenze politiche. Questa “incomunicabilità” non aiuta la costruzione di una proposta unitaria di visione e di governo che ammendi la frammentazione politica della città. Guardando le tavole di “#mapparoma – Referendum costituzionale 2020 a Roma”, non si può non cogliere la geografia del disagio spalmata nel patchwork delle tante, diverse Rome delle periferie. Territori nei quali il PD è latitante mentre diventano il luogo stabile della protesta con i colori della Lega, dei 5S e delle altre destre. Per quanto non sia nelle intenzioni, difficile non vedere il PD recepito qui come un partito di intellettuali, sostanzialmente di benestanti, ma che in definitiva rimane oggi molto lontano da quell’idea di cultura viva e unificante dalla quale erano partiti Argan e Petroselli.
Come partito dovremmo quindi tornare ad ascoltare, capire e dialogare in modo aperto e costruttivo, senza furbizie, senza tentazioni di anticipare e governare i processi verso soluzioni precostituite. Aprirsi al confronto e alla contaminazione con questa società civile organizzata sulla strada che abbiamo indicato è l’atteggiamento vincente se vogliamo creare un progetto di città che sia di tutti e per tutti.
Se questa direzione non verrà intrapresa temiamo che del messaggio politico rimanga solo l’infelice sensazione di cercare con il nome del/della candidato/a l’idea che non si ha. Non possiamo immaginarlo.
Abbiamo dunque fiducia che quanto abbiamo discusso e poi scritto possa suscitare almeno un po’ della passione che abbiamo messo noi nel costruirlo e che ci sia ora un seguito concreto. Ce lo meritiamo tutti, la città, gli abitanti e gli elettori del partito.
